lunedì 13 luglio 2015

Il Virus Che Voleva Fermare MJ (30 Luglio 2004)

Un Jordan esausto sorretto da Pippen
Al termine di gara 1 della serie finale del 1997 un solo grido si levava dagli spalti dello United Center di Chicago:  
"MVP, MVP, MVP".
Così forte, così possente da far tremare persino i muscoli di un uomo che non ha mai abbassato lo sguardo dinanzi a nulla. Karl Malone probabilmente in quel momento aveva realizzato la differenza fra l'MVP di stagione e l’MVP di tutti i tempi.
Ma facciamo un passo di indietro di circa un mese.
Torniamo al maggio di quel 1997, con i playoffs in pieno svolgimento.
In Regular Season Chicago non era riuscita a bissare la straordinaria stagione dei record dell’anno prima (72 vittorie e 10 sconfitte), in cui Jordan aveva portato a casa, oltre all’ottavo titolo di miglior realizzatore ed il quarto anello, anche i titoli di miglior giocatore della stagione, dell’All Star Game e delle finali.
Eppure i Bulls erano stati comunque autori di una stagione magistrale, eguagliando comunque il precedente record di Season che risaliva addirittura al 1972 ad opera dei Lakers di West e Chamberlain (69 vinte e 13 perse).

Avevano chiusto con cinque vittorie in più della seconda squadra della Seasone, quegli Utah Jazz, guidati dall’intramontabile Stockton to Malone, giunti probabilmente al punto più alto della loro carriera.Karl Malone aveva realizzato 27.4 punti per partita (secondo alle spalle di Jordan) e catturato 9.9 rimbalzi per gara.
La lotta per il trofeo di miglior giocatore della stagione era una questione privata, fra i due migliori giocatori del momento. Il postino contro Sua Maestà Jordan.
Mentre in post-season i Bulls regolavano senza troppa fatica gli Hawks e i Jazz maltrattavano tranquillamente i Lakers, rimbombava nell’etere la notizia che l’MVP stagionale era stato assegnato all’ala di Utah, con una vittoria di stretta misura sul numero 23 in maglia Bulls.
La Città del Vento non la prese affatto bene. Considerò quella decisione alla stessa stregua di un affronto personale, quasi un’empia ingiustizia da ricacciare in gola all’usurpatore del trono alla prima occasione valida.
Non dovettero aspettare molto.
La serie finale mise infatti di fronte le due migliori della classe: Chicago Bulls contro Utah Jazz.
O, come sarà subito ribattezzata, l’MVP di stagione contro l’MVP di sempre.
Gara Uno. Chicago. Domenica pomeriggio. Una partita equilibrata e ricca di emozioni.
A 9.2 secondi dalla fine, con il punteggio bloccato sull’82 pari, Karl Malone va in lunetta per due tiri liberi che possono voler dire vittoria e immediato rovesciamento del fattore campo.
Scottie Pippen si avvicina all'ala dei Jazz e gli sussurra qualcosa all’orecchio. Malone scuote il testone, innervosito. Si posiziona sulla linea dei tiri liberi.
Volto concentrato, labbra che si muovono a scandire il ritornello che da sempre ripete quando si ritrova a portare a termine quell’infausto compito, Karl lascia partire il primo libero.
Palla sul ferro.
Ancora le labbra che frenticamente bisbigliano qualcosa, ancora l’estenuante ritornello, poi parte il secondo libero.
La sfera gira nuovamente sul ferro allentato dalle recenti esibizioni circensi allo United Center. Infine esce. Rimbalzo difensivo di Chicago. Time Out.
La faccia di Malone, immortalata in migliaia di riprese televisive, ci racconta tutto lo sconforto del giocatore.
In seguito si verrà a sapere che le parole bisbigliate da Scottie a Karl, un attimo prima dei liberi falliti, sarebbero state: “Di domenica i postini non consegnano”. Giù il cappello.
Il tiro della vittoria di MJ in gara 1
Sul filo della sirena di quella gara 1, Jordan mette il canestro decisivo in faccia a Bryon Russel ed alza il pugno al cielo in segno di vittoria. Quasi di sconfinato potere. 31 punti per lui e 1-0 Bulls. Fattore campo rispettato.
"MVP, MVP, MVP", come dicevamo poc'anzi.
Nel dopopartita il postino si presenta in conferenza stampa e dichiara candidamente di aver solamente preso in prestito per un anno da Jordan il trofeo di miglior giocatore di stagione. Non un bagno di umiltà da parte di King Karl, visto che quel titolo non l’aveva certamente rubato ma era stato il meritato premio a coronamento di una stagione esemplare del 32 di Utah. Semplicemente un rispettoso riconoscimento al più grande.
Ma chi si era aspettato i Jazz come ennesima vittima sacrificale dinanzi alla potenza dei Bulls, aveva sbagliato i calcoli. Dopo che i Bulls si erano portati sul 2 a 0 nelle partite casalinghe, i Jazz avevano vinto gara 3 e gara 4 in casa.
La quinta e probabilmente decisiva sfida era ancora al Delta Center, Salt Lake City, Utah.
I Jazz venivano da due vittorie consecutive casalinghe, spinti dell’entusiasmo dei tifosi del proprio palazzetto, uno dei più chiassosi d’America.
In Gara 3 c'era stato il rigurgito d'orgoglio di Karl Malone che aveva chiuso con 37 punti, 10 rimbalzi, 4 recuperi e aveva abusato di Rodman, incapace di contenerlo (per il Verme 0 punti e appena 3 rimbalzi in soli 24 minuti di gioco).
Il recupero di Stockton su MJ in gara 4
Gara 4 era invece stata la partita di John Stockton.Gli ultimi due minuti di gioco erano stati un autentico show del trentacinquenne play di Utah. Diciassette punti, dodici assist, quattro recuperi, un’importante palla rubata su MJ a pochi secondi dalla fine ed un impossibile e telepatico assist da canestro a canestro per Malone, che rimarrà scolpito negli annali di questo sport, degno del miglior quaterback NFL.
Risultò invece di nuovo completamente nullo in gara 4 l'apporto di Rodman (0 punti, 6 rimbalzi e 4 falli in 25 minuti di gioco).
I Bulls, forse non erano mai stati messi così in crisi da un avversario in una finale. Probabilmente neanche da Phoenix nel 1993. E a far vacillare ancora di più le certezze dei Tori fu la notizia che arrivò al mattino di Gara 5 e che esplose con sommo fragore da Salt Lake City a Chicago, da una costa all’altra, attraverso tutti gli States: Micheal Jordan era in forte dubbio per la partita.
La notte prima era stato colpito da una violenta infezione intestinale che gli aveva procurato febbre, vomito, disidratazione e una nottata completamente insonne.
A Utah non crede nessuno che il 23 non sarà in campo e infatti alla presentazione delle squadre, Micheal è regolarmente nello starting five, ma quando le telecamere si soffermano sul suo volto è subito evidente che qualcosa non va.
Lo sguardo, quello sguardo che lo aveva reso un’icona nel mondo del basket, quegli occhi che secondo Drexler emanavano lampi, stavolta erano spenti. Erano lucidi, acquosi, quasi languidi. È sudato ancor prima di iniziare a giocare. È il ritratto della sofferenza fisica.
Si saprà in seguito che, immediatamente prima del match, il termometro con cui il medico gli aveva misurato la temperatura, aveva dato come responso 39°.
Gara 5 diventa subito per i Jazz una ghiotta occasione da non sprecare. L’imperativo assoluto è vincere ed abbattere le residue speranze dei Bulls.
Utah parte col piede sull’acceleratore. Sono consci di avere dalla propria la fortuna di un Jordan in cattive condizioni di salute. Sanno di avere l’intero ed indiavolato palazzetto dalla propria. Un tifo da spaccare i timpani. Ma soprattutto sanno di potersi portare per la prima volta in vantaggio nella serie, di poter essere la seconda squadra a poter mettere sotto i Bulls dell'era Jordan in una serie finale, e di giocarsi il tutto per tutto una volta tornati a Chicago.
Il primo quarto si chiude sul 29-16, Utah. Un più 13 che sembra già segnare la gara. Nel secondo quarto Chicago sembra risvegliarsi, ma Utah non molla. Complici l’insufficiente prestazione di Rodman (per lui a fine gara 2 punti e soli 7 rimbalzi) ed un Pippen impreciso al tiro (per lui 17 punti, ma 10 rimbalzi e 5 assist), Jordan deve dar fondo a tutte le sue già scarse energie per riportare la sua squadra in partita. La prima metà di gara finisce però ancora con i Jazz avanti: 53-49. Nell’intervallo tutte le preoccupazioni dello staff tecnicodei Bulls sono per il numero 23. Il suo volto stravolto è tutto un programma.
Il bruttissimo inizio di Chicago ha costretto Jackson a tenerlo in campo più del previsto ed ha costretto Micheal a fare gli straordinari sin da subito.
Lo stesso MJ teme di non farcela. Parla con coach Phil di un suo possibile utilizzo solo nei momenti chiave. Neanche a dirlo, sarà colui che (insieme a Pippen) rimarrà in campo più di tutti.
Il terzo quarto è tirato e combattuto. Pippen prova a portare avanti la baracca ma non è preciso al tiro (chiuderà con 17 punti, 10 rimbalzi e 5 su 17 al tiro). Rodman difende bene su Malone ma uscirà per falli dopo 24 minuti di gioco con 2 punti e 7 rimbalzi a referto.
Entrambe le squadre alzano i propri muri difensivi. Solo 37 punti complessivi. 19 per Utah, 18 per Chicago.
Risultato parziale: 72-67. Un più 5 Utah, che lascia la gara assolutamente aperta a qualsiasi soluzione.
Poi arriva l’ultimo periodo. E qui si scrive la storia. L’ennesimo capitolo di una saga leggendaria, quella di Micheal Jeffrey Jordan.
Inizia la rimonta di Chicago. Lenta, ma inesorabile.
A 46 secondi dalla fine, i Bulls sono sotto di uno: 85-84.
Fallo su Micheal. Il numero 23 va in lunetta. Mette il primo libero.  Parità. Sbaglia il secondo. La palla tocca il ferro. MJ è il più lesto di tutti. Vola a rimbalzo offensivo e nel traffico aereo fa sua l’arancia.
Pippen è piazzato in post, riceve la sfera dal 23.
Bryon Russel abbandona la difesa su Jordan per andare a raddoppiare Pippen. Micheal esce dalla linea dei tre punti. Pippen lo vede con la coda dell’occhio e gli restituisce il pallone.
Parte la tripla. Solo rete. 88-85, Bulls.
“We wanted it real bad” dirà Jordan in seguito “I was really tired and very weak. I came in and I was almost dehydrated. My energy level was really low. My mouth was really dry”.
Insomma, stanco, debole, disidratato, un livello di energie prossime allo zero e la bocca completamente secca, eppure vincente. Come sempre.
Il boxscore di fine gara dice 44 minuti di gioco per MJ, 38 punti,  7 rimbalzi, 5 assist, 3 recuperi, 13 su 27 dal campo, la tripla della vittoria.
Il risultato finale è di 90-88 per i Bulls.
Appena la partita finisce, Jordan si avvia verso gli spogliatoi, ma non ce la fa. Pippen lo sorregge e lo porta in panchina di peso.
Forse, considerando le condizioni al contorno, la più grande prova del più grande di sempre.
I Bulls chiuderanno quella serie in gara 6 col famoso canestro decisivo di Steve Kerr, su assist di Jordan, dopo che stavolta sì, coach Sloan aveva deciso di raddoppiarlo.


Articolo Pubblicato da The goat per PlayitUsa il 30 Luglio 2004



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