mercoledì 27 maggio 2015

Once Upon a Time in America [Prima e Seconda Parte - 21/28 Aprile 2013]


Nel 1946 George Mikan aveva ventidue anni ed era un rookie nella NBL, la National Basketball League. Giocava con i Chicago American Gears e, dall’alto dei suoi due metri e zero otto, portò la squadra a vincere un titolo mai contemplato negli almanacchi ufficiali.
Nello stesso anno, la lega concorrente, la Basketball Association of America (meglio nota come BAA), vide i Philadelphia Warriors di Joe Fulks, il mitico Jumpin’ Joe, vincere il primo titolo nella storia di quella che in seguito sarebbe diventata la NBA, nata proprio dalla fusione fra BAA e NBL.

Entrambe le leghe erano popolate esclusivamente da giocatori di razza caucasica. Bianchi, per capirci. Non esistevano altri colori in giro per i parquet di quella che stava diventando la nuova frontiera del basket professionistico americano.
L’anno successivo, in NBL continuò il dominio di Mikan, trasferitosi dopo una serie di curiose vicissitudini in una squadra che sarebbe divenuta piuttosto famosa dalle parti del pianeta terra col nome di Lakers, all’epoca di stanza a Minneapolis
Sulla sponda BAA, invece, i Baltimore Bullets liquidarono in finale Fulks & Company. Ed anche il secondo titolo degli almanacchi era assegnato.
Wataru Misaka
Nulla di sensazionale, si dirà, se non fosse per un piccolo particolare. Quella stagione vide esordire con la maglia dei New York Knickerbockers una point guard di un metro e settantatre centimetri di altezza, dal curioso nome di Wataru Misaka.
“Wat” era nato nello Utah, aveva giocato a basket all’Odgen High School e nel 1940 l’aveva portata al titolo dello stato. Era parecchio bravo, dicono, così si era iscritto all’università dello Utah e anche questa l’aveva condotta al titolo NCAA nel 1944. Dopo una lunga pausa dovuta al conflitto mondiale, il giocatore fu scelto al draft del 1947 dai Knicks. Giocò appena tre partite in maglia blu-arancio, segnò sette punti, quindi fu tagliato. Non mise mai più piede nella lega.
Il taglio – si dice – fosse stato dettato da motivazioni puramente tecniche, i Knicks avevano troppi giocatori nel suo ruolo. In molti nutrono però dubbi in merito.
Wataru Misaka occupa un ruolo importante nel firmamento del basket a stelle e strisce, è stato il primo giocatore nella storia della NBA a non essere bianco. Lui era giapponese, aveva gli occhi a mandorla, la carnagione gialla e tutte le caratteristiche annesse e connesse con le sue origini.
Sembrerà cosa da poco vista con gli occhi del ventunesimo secolo. All’epoca non era niente di meno che un evento.
Nulla però in confronto a quanto avveniva nella lega vicina.
Lo stesso anno che vide l’esordio di Misaka nella BAA, infatti, Jackie Robinson infranse per la prima volta nella storia del baseball il “Color Line”. E questo sì che rappresentava una vera e propria rivoluzione.
Il “Color Line” era un gentleman’s agreement, molto poco gentleman, stipulato sul finire dell’ottocento dai proprietari delle varie franchigie, che escludeva giocatori di colore dalla Major League e da tutte le leghe affiliate. In verità, non vi era alcuna regola scritta che proibisse la chiamata dei negri, ma per taciti accordi la segregazione razziale era di fatto un impegno preso davanti a Dio e al popolo.
I “blacks” si radunavano così in leghe minori, chiamate solitamente con nomi eleganti e per nulla discriminanti, quali “Negro League” o “Colored League”. Era una prassi consolidata, questa, che durava da qualcosa come sessant’anni.
Tutto era iniziato quando, sul finire del 1867, con le ferite della guerra civile ancora fresche e sanguinanti, dapprima la Pennsylvania State Convention of Baseball negò ai Philadelphia Pythian, squadra formata esclusivamente da neri, l’accesso a qualsiasi competizione dello stato; in seguito l’associazione nazionale dei giocatori andò oltre e decise di escludere qualsiasi club che avesse a roster anche solo un afro-americano.
Nel decennio successivo, le evoluzioni del gioco e le varie aggregazioni e disgregazioni delle leghe sportive portarono all’abrogazione della norma, tanto che per brevi periodi capitò che qualche nero scendesse in campo con i bianchi.
Ma non era tutto così semplice. In molti cominciarono a storcere la bocca di fronte a quelle sporadiche apparizioni, a paventare una progressiva integrazione con annessa contaminazione della pregiatissima razza caucasica, non ancora ariana. Del resto, si sa come vanno certe cose. A questi gli si dà un dito e si prendono il braccio. Si inizia da una cosa innocua come il baseball e si finisce a ritrovarseli a mangiare alla stessa tavola, a dividere lo stesso albergo.
A dar voce a questi pensieri, un bel giorno ci pensò qualcuno che nel circuito del baseball contava. E anche parecchio.
Costui si chiamava Adrian Constantine Anson, meglio conosciuto come “Cap” Anson, pluridecorato campione di Chicago. Il nostro più volte si rifiutò di dividere il campo con giocatori che avessero un colorito della pelle diverso dal suo, coinvolgendo nella protesta tutta la sua squadra.
L’illustrissimo non parlava mai invano. I suoi rifiuti fecero rumore. Tanto rumore. Fu così che per evitare di far incazzare gente come “Cap” Anson, il 14 Luglio 1887 - esattamente 98 anni dopo una cosuccia chiamata Rivoluzione Francese - fu deciso che i neri dovessero andare a svernare da qualche altra parte. Non potevano più essere firmati e quelli già a roster dovevano salutare non appena fosse scaduto il loro contratto.
La segregazione era servita.
Dal 1890 non ci fu più alcun afro-americano nel luccicante mondo del baseball a stelle e strisce, fino appunto a Jackie Robinson. 
Jackie Robinson
L’allora ventottenne Jackie, atleta di classe sopraffina, aveva sostenuto dapprima un provino-farsa per i Boston Red Sox. Quel pomeriggio, lui e altri ragazzi di colore in prova, non solo non ebbero alcuna possibilità di mettersi in mostra ma vennero anche bersagliati dai feroci insulti e dagli sputi di raffinatissimi spettatori dalla pelle bianca.
In seguito Jackie aveva raggiunto e firmato un accordo con il presidente e GM dei Brooklyn Dodgers, Branch Rickey.
Rickey era stato sin da subito chiaro. Una scelta del genere avrebbe esposto il giocatore, in ogni singola partita, agli insulti del pubblico in maniera ben più feroce rispetto al provino di Boston. Ma Jackie, che aveva le spalle larghe e un carattere mica da ridere, firmò egualmente un contratto da 600 dollari al mese e consegnò ai libri di storia la frase:
"I'm not concerned with your liking or disliking me... all I ask is that you respect me as a human being."
Per i non udenti: “Non sono interessato alla vostra simpatia o antipatia… tutto quello che chiedo è che mi rispettiate come essere umano”.
Appena la notizia si sparse, si scatenò l’inferno. Molti dei futuri compagni di squadra prepararono una petizione per il suo allontanamento rifiutandosi di giocare al suo fianco o di dividerne lo spogliatoio. Molti giocatori di altre squadre minacciarono di scioperare nel caso fosse stato schierato contro di loro.
Tutto inutile. Era il 15 Aprile del 1947 quando, all’Ebbets Field di Brooklyn davanti ad oltre 23.000 spettatori, Jackie Robinson esordì con i Dodgers in un clima di tensione ed isterismo.
Erano passati sessant’anni dal tacito divieto: nel mezzo, un paio di guerre mondiali, più di una sanguinosa dittatura, qualche genocidio sparso qua e là, l’olocausto degli ebrei.
Un grande muro era stato abbattuto quel giorno. Il talento, il coraggio e la testardaggine di un uomo che non voleva considerarsi diverso fecero il resto, contribuendo in maniera significativa all’abbattimento delle barriere razziali. Almeno nello sport.
Il suo coraggio costrinse l'America di quegli anni a fare i conti con la questione razziale. Oggi, nessun giocatore di baseball indossa la maglia numero 42, il suo numero. Ed ogni anno, il 15 aprile, l'America celebra il Jackie Robinson Day. Alla faccia di “Cap” Anson.
Lo sport si era elevato a precursore di quei profondi mutamenti sociali che, nel giro di pochi anni, avrebbero investito con sommo fragore l’intero tessuto sociale e politico americano.
Ma tornando alla nostra amata pallacanestro, le cose non andavano poi così diversamente. Certo, non aveva alle spalle la storia pluridecennale del baseball. Andava più piano. Ma forse più lontano.
Anche nel basket c’era stata la “Negro American Legion League”, una lega semiprofessionistica in cui venivano relegati i giocatori di colore e dove avevano esordito gli Harlem Globetrotters.
I gloriosi Rens di New York

Nel 1923 erano stati fondati i New York Renaissance, forse la più gloriosa squadra nella storia della pallacanestro a stelle strisce, team di Harlem che accoglieva esclusivamente giocatori afro-americani che non trovavano spazio altrove, le cui gesta e la cui leggenda saranno colonna portante della storia di questo sport. Il basket collegiale già da qualche tempo aveva accettato i “blacks” fra le proprie fila e dalla fine degli anni ’40 qualche stellina tutta nera aveva cominciato a splendere.
Don Barksdale di UCLA era stato nominato All-American in NCAA nel 1947, aveva partecipato alle Olimpiadi di Londra del 1948 con la maglia degli Stati Uniti e ovviamente le aveva vinte. Primo nero a compiere queste imprese.
Poi era arrivata l’NBA, tutta bianca. “Wat” Misaka era durato appena tre partite ed era stato fatto fuori. Bisognerà aspettare tre anni da Misaka e quindi da Jackie Robinson, per vedere un afro-americano varcare le soglie della nuova lega professionistica di basket.
Più precisamente bisognerà aspettare il 25 Aprile del 1950, quando al Madison Square Garden di New York i proprietari e i GM delle varie franchigie si erano riuniti per il draft della NBA, giunto alla sua quarta edizione.
Paul Arizin, non propriamente uno qualunque, si presentò per primo davanti al commisioner della lega, Maurice Podoloff. Era la scelta territoriale dei Philadelphia Warriors. Ovviamente bianco.
Successivamente, con la prima chiamata assoluta i Celtics fecero il nome di Chuck Share. Bianco.
Con la terza chiamata, i Tri-Cities Blackhawks scelsero un pallido playmaker proveniente da Holy Cross, verso cui non nutrivano la minima fiducia. Si chiamava Bob Cousy. Lo girarono ai Chicago Stags, questi fallirono e Cousy finì per vie traverse ai Celtics, nonostante l’ostruzionismo di Auerbach che non gradiva il suo nome.
Con la settima scelta, i Fort Wayne Pistons andarono su un futuro Hall of Famer, George Yardley. Bianco.
Seguirono altre tre scelte sbiadite e completamente incolori di cui pochi conservano il ricordo. Alla dodicesima chiamata assoluta, la prima del secondo giro, arrivò il botto.
I Boston Celtics, nella persona di Red Auerbach, lo stesso che pur non gradendo, si era ritrovato sul groppone Cousy, pronunziarono un nome destinato a cambiare le sorti della lega, quello dello sconosciuto Chuck Cooper. Nero. Più precisamente, il primo nero nella storia del draft NBA.
Ma non finiva lì. Qualche chiamata dopo, i Washington Capitols scelsero Earl Lloyd da West Virgina. Nero. Ed il giorno successivo, il 26 Aprile, Harold Hunter, anche lui nero, firmò un contratto per i Washington Capitals, divenendo il primo giocatore afro-americano a firmare per una squadra NBA. Hunter non scenderà mai in campo, sarà tagliato durante il Training Camp, ma poco importa ai fini della nostra storia.
Chi invece firmò, rimase a roster e calpestò il parquet del Madison, fu invece Nathaniel “Sweetwater” Clifton, nero, al servizio dei New York Knicks.
Ai tre di cui sopra, nel dicembre dello stesso anno si aggiunse anche Hank DeZonie, nero, che firmò per i Tri-Cities Blackhawks.
Clifton, Lloyd, Cooper e DeZonie furono i primi quattro afro-americani a giocare in NBA.
Hank DeZonie era stato l’ultimo ad esordire, ma il primo ad andarsene. Non resse per più di qualche settimana e dopo appena cinque partite disse basta. Salutò i compagni che lo guardavano con disprezzo e si rifiutavano persino di toccarlo, disse addio alla fredda baracca in cui era stato segregato con la neve che arrivava fino al soffitto e una vecchia che masticava tabacco, messa lì per fargli compagnia, e tornò ad esibirsi nelle varie “Negro League” sparse per gli States.
Earl Lloyd con la maglia dei Pistons
Earl Lloyd era invece stato il primo ad esordire e anche quello che sarebbe durato più a lungo. Scese sul parquet di Washington il 31 Ottobre 1950, opening day della Season.
Era soprannominato “Il grande gatto”. Giocò appena sette partite con i Capitols prima che questi fallissero miseramente. A quel punto Earl si arruolò in marina, in seguito venne chiamato dai Syracuse Nationals e concluse una più che dignitosa carriera con i Detroit Pistons.
Non furono anni facili. Per niente. Certo, nulla di paragonabile a quello che stava passando Jackie Robinson nella lega vicina, ma anche Lloyd dovette ingoiare i suoi rospi. A volte grossi, rugosi e ripugnanti.
Racconta Johnny “Red” Kerr, non uno qualunque ai piani alti della NBA, che spesso a fine partita, avessero vinto o perso, in casa o in trasferta, Earl era bersagliato dagli insulti e dagli sputi del pubblico, amico o nemico che fosse.
Durante le Finals del 1955 a Fort Wayne, nell’Indiana, al giocatore fu in via del tutto eccezionale permesso di alloggiare nell’hotel con la squadra, ma non di mangiarvi assieme. Anzi, a dirla tutta, i proprietari lo invitarono a non farsi vedere in giro per non macchiare la rispettabilità dell’albergo. Così lui si ritrovava ogni sera a mangiare in stanza da solo.
Lloyd trascorse dieci anni nella lega, con una media di poco più di 8 punti a partita, 6 rimbalzi e mezzo ed un titolo di campione NBA con i Nationals, divenendo il primo afroamericano detentore di un anello. In seguito divenne scout, assistente coach e allenatore a Detroit, in una NBA che stava rapidamente mutando, una lega diversa da quella che aveva conosciuto lui.
Lloyd aveva aperto la strada. Sessant’anni dopo, la lega sarebbe stata composta prevalentemente da giocatori di colore ed è quasi assurdo oggi pensare che c’è stato un tempo in cui i proprietari delle franchigie non firmavano afro-americani per non creare imbarazzi alla squadra, per non avere problemi negli alberghi o nei ristoranti, ma soprattutto per paura dell’accoglienza del pubblico. 
Un giovanissimo Malcom X
Erano quelli gli anni in cui la questione razziale stava esplodendo negli Stati Uniti con il frastuono di una deflagrazione nucleare.
Erano gli anni in cui stavano emergendo figure di spicco nel variegato e complesso panorama afro-americano, come quella controversa di un ex detenuto del Nebraska, Malcolm Little, che rifiutò il suo cognome da schiavo e lo sostituì con una “X” per simboleggiare l'assenza di un vero cognome africano-musulmano.
Malcom era membro importante della “Nation of Islam”. Il suo carisma, il suo temperamento, le sue parole, fecero moltissimi proseliti e la “NOI” crebbe a dismisura sotto la sua guida, arrivando ad annoverare nel giro di pochissimo tempo oltre trecentomila iscritti, tra cui anche un pugile di cui più d’uno ha sentito parlare, Cassius Clay, che per l’occasione cambiò il proprio nome in Muhammad Ali.
Erano anche gli anni in cui un pastore venticinquenne di Atlanta, in Georgia, attento studioso dell’opera di Gandhi, aveva iniziato la sua attività pacifista in nome dell’abbattimento dei pregiudizi etnici e delle barriere razziali. 
Martin Luther King
Si chiamava Martin Luther King Jr. e nel 1954 divenne pastore della chiesa battista di Dexter Avenue a Montgomery, in Alabama, profondo sud, lì dove la situazione razziale era tra le più drammatiche. 
Martin Luther King predicava l'ottimismo creativo dell'amore e della resistenza non violenta, la più sicura alternativa sia alla rassegnazione passiva che alla reazione violenta, sostenuta da altre frange come appunto quella integralista presieduta da Malcolm X. 
Proprio a Montgomery, nel corso di tutto il 1955, mentre Earl Lloyd raccoglieva le migliori soddisfazioni cestistiche della sua onesta carriera e nel contempo il colore della sua pelle gli creava i più grandi problemi, la questione razziale assurse tragicamente agli onori della cronaca.
Era il secondo giorno di marzo quando alcuni uomini dalla carnagione rosea salirono su un autobus e, con enorme disappunto, non trovarono posti liberi dove far accomodare i loro nobili e pallidi deretani. Informarono l’autista del disdicevole problema e questi pretese che quattro donne nere, sedute nei posti di mezzo, quelli cioè messi a disposizione sia per i bianchi che per i neri, si alzassero. Dinanzi al rifiuto di due di quelle donne, intervenne la polizia.
Rosa Parks tratta in arresto
Claudette Colvin, una studentessa quindicenne che tentò imperterrita di far valere i propri diritti, fu arrestata. Il caso fece rumore, ma ancor più rumore fece qualche mese dopo, nel dicembre dello stesso anno, quello di Rosa Parks.
La giovane donna, di professione sarta, venne arrestata con l’accusa di aver violato le leggi sulla segregazione in quanto aveva fermamente rifiutato di alzarsi dal suo posto su un autobus nel momento in cui un bianco lo aveva preteso.
Il gesto della Parks fu l’evento da cui poi scaturì la grande battaglia intrapresa da Martin Luther King per i diritti civili degli afro-americani. Sfociò nel famoso boicottaggio dei bus di Montgomery e ben presto la protesta avrebbe lasciato i confini della singola città per espandersi in tutta l’Alabama e in seguito in tutti gli Stati Uniti.


TO BE CONTINUED...



Prime due parti di un articolo pubblicato da Luigi Sorrenti per il defunto blog Hoops Democracy il 21 e il 28 Aprile 2013.


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