mercoledì 18 marzo 2015

I Bad Boys e le Jordan Rules


Jordan contro tutti
Nelle ultime due edizioni dei Playoffs NBA, i Detroit Pistons erano reduci da altrettante sconfitte maturate agli ultimissimi secondi di una gara 7. 
Nel 1987 erano stati i Celtics di Larry Bird ad avere la meglio sui Pistons nella finale della Western Conference (Ultimi Bagliori di Leggenda). Nel 1988 era invece toccato ai Lakers di Magic e Kareem battere la squadra del Michigan in un'agguerrita e bellissima serie finale (Una squadra in Missione) e rimandare ancora di un anno l'appuntamento con l'anello di coloro che ormai erano conosciuti in tutto il mondo come i Bad Boys.
Nella stagione 1988-'89, Detroit sembrava però davvero pronta per il titolo NBA. La concorrenza ad est, complice soprattutto il crollo dei Celtics e gli infortuni dei suoi uomini migliori, non sembrava poter impensierire i Pistons. La squadra vinse 63 partite e si aggiudicò il miglior record della lega. Si presentò alla post season temuta da tutti, sia per la sua forza, sia per l'aggressività dei suoi giocatori che spesso e volentieri rasentava la cattiveria più pura.
Nei Playoffs i Pistons sweepparono prima gli ormai logori e vecchi Celtics e poi i Bucks. In finale di conference si ritrovarono di fronte i Chicago Bulls, giunti fin lì fra la sorpresa generale.

Era la prima volta dal 1975 che Chicago arrivava così lontana in post season. Il faro della squadra era il giovane Michael Jordan, da molti considerato l'astro nascente della lega. Michael era al suo quinto anno fra i pro, aveva già vinto un trofeo di MVP di stagione (1988) e uno di difensore dell'anno (sempre nel 1988), inoltre era stato per il terzo anno consecutivo miglior realizzatore della lega. Tuttavia se molti erano gli estimatori del giocatore, altrettanti erano i suoi detrattori. Spesso Jordan veniva considerato da questi un meraviglioso solista, incapace però di migliorare realmente i compagni di squadra. 
Al primo turno di quei playoffs i Bulls avevano sconfitto i Cleveland Cavs dopo una agguerritissima serie. Cleveland in stagione aveva battuto Chicago 6 volte su 6, compreso un 90-84 nell'ultima partita di Regular Season in cui i Cavaliers avevano per giunta fatto riposare i loro migliori giocatori. Era un serie che appariva segnata, tanto più che Cleveland aveva vinto 10 partite in più rispetto a Chicago in stagione e aveva il fattore campo a favore.
Contrariamente alle previsioni la serie però fu durissima ed equilibrata e si decise soltanto agli ultimissi istanti della quinta e decisiva partita.
In quel match, a sei secondi dalla sirena, Jordan realizzò un jump che portò i Bulls sul più uno: 99 a 98. Cleveland chiamò Timeout. Craig Ehlo, guardia della squadra di casa, rimise in gioco la sfera e servì l'ala Larry Nance. La palla tornò a Ehlo che riportò avanti i Cavs con un layup, realizzando il suo ventiquattresimo punto. Mancavano 3 secondi alla fine della partita e quindi della serie. Cleveland 100, Bulls 99.
Due immagini che faranno storia. Il tiro e l'esultanza di MJ
Timeout Chicago. Brad Sellers alla rimessa. Michael Jordan, che l'anno precedente al primo turno di playoffs contro la stessa Cleveland aveva scritto 50 e 55 punti rispettivamente in gara 1 e gara 2 della serie, era pressato dagli stessi Ehlo e Nance. MJ si liberò dei suoi marcatori, ricevette la sfera e...
...e il resto è storia. 
The shot fu ribattezzato quel tiro. Divenne lo sfondo per una nota pubblicità di un altrettanto nota bevanda energetica, fece più volte il giro del mondo, entrò nelle case d'America e successivamente del mondo, mostrò a tutti l'esultanza quasi selvaggia del futuro dominatore della lega. 
Quell'esultanza tuttavia era destinata a durare poco. La presenza di Jordan aveva infatti sì reso i Bulls una squadra da Playoffs, ma il passo successivo era di gran lunga più difficile. Il titolo sembrava essere ancora lontano.
Nella finale della Eastern Conference contro i Pistons, Jordan siglò 32 punti in gara 1 e 46 in gara 3. I Bulls resistettero giusto quelle due gare prima di alzare bandiera bianza di fronte alla forza, al furore agonistico e all'energia dei Bad Boys di Detroit. Nessun altro componente dei Bulls sembrò in grado di resistere all'assalto di Isiah Thomas e compagni. Il secondo anno Pippen fu schiacciato e intimorito dagli avversari, realizzò appena 8 punti di media nella serie con una percentuale dal campo che non era degna del secondo violino della squadra.
I Bulls erano giovani e poco avvezzi a certe battaglie, i Pistons una squadra ormai esperta, forgiata dai durissimi scontri contro i Celtics e contro i Lakers. I Pistons erano uomini, duri e scaltri; i Bulls soltanto talentuosissimi bambini. 
Il terrore dei Bulls, Bill Laimbeer
Lo stesso Jordan palesò evidenti limiti nel gestire l'asfissiante e aggressiva difesa dei Pistons. In gara 5 realizzò 18 punti, prendendosi solo 8 tiri dal campo in 46 minuti di gioco. Le Jordan Rules di Chuck Daly quell'anno e specialmente in quella partita raggiunsero una perfezione quasi chirurgica.
Le Jordan Rules erano un insieme di complesse regole varate dal coach di Detroit per limitare appunto lo strapotere offensivo del numero 23 in maglia Bulls. Erano state già sperimentate con successo l'anno precedente, quando i Pistons si erano sbarazzati piuttosto facilmente di quei giovanissimi Bulls. Adesso avevano appena toccato il loro apice. Chuck Daly aveva mostrato la via che altri coach dopo di lui proveranno a seguire negli anni a venire senza però troppo successo.
Chuck Daly, l'inventore delle Jordan Rules
Alla base delle Jordan Rules c'era una forte intimidazione fisica nei confronti di Jordan e per riflesso di tutti i giocatori dei Bulls.
Inoltre veniva giudicato fondamentale variare costantemente il modo di difendere su MJ in modo da non dargli alcun punto di riferimento e di conseguenza non darlo al resto della squadra che senza il proprio faro sarebbe andata in difficoltà. A turno i Pistons si concentravano in massa su di lui per evitare potesse tirare, per poi bloccargli tutte le linee di passaggio, ma tutto questo sarebbe stato forse perfettamente inutile senza l'intelligenza cestistica e l'aggressività a tratti violenta di tutti i componenti della squadra di Detroit. Risultava poi basilare non permettere a Jordan canestri in penetrazione e per evitare ciò ogni mezzo era lecito: numerosi erano i colpi proibiti che volavano sul parquet durante i tentativi di MJ di avvicinarsi a canestro, prevalentemente da parte dei due giocatori più feroci della squadra, il giovane Dennis Rodman e il guerriero Bill Laimbeer, il vero incubo di tutti i Bulls.
Un brevissimo riassunto delle Jordan Rules, lo diede lo stesso Chuck Daly anni dopo durante un'intervista televisiva:
“If Michael was at the point, we forced him left and doubled him. If he was on the left wing, we went immediately to a double team from the top. If he was on the right wing, we went to a slow double team. He could hurt you equally from either wing — hell, he could hurt you from the hot-dog stand — but we just wanted to vary the look. And if he was on the box, we doubled with a big guy."
Quella serie terminata in 6 partite ringaluzzì comunque i numerosi detrattori di Jordan, quei poveretti (nel senso buono del termine) che lo ritenevano un giocatore che "mai sarebbe stato in grado di condurre una squadra al titolo".
I Pistons volarono così alla loro seconda finale NBA consecutiva. E quella volta riuscirono a vendicarsi della sconfitta dell'anno precedente, andando ad asfaltare con un sonoro sweep i Lakers di Magic e Kareem. Gara 4 di quella serie finale fu l'ultima partita in carriera dell'immenso Kareem Abdul-Jabbar. Dopo 20 anni di NBA, 6 titoli, 6 MVP di stagione regolare (record assoluto), 2 MVP delle finali, 38.000 e rotti punti (anche questo record NBA), Jabbar appendeva le scarpe al chiodo il giorno in cui i Bad Boys coronarono il loro sogno di conquistare l'annello, il primo nella storia della franchigia.
Isiah Thomas e i suoi Pistons erano saliti in cima al mondo, ma non avevano la minima intenzione di fermarsi lì. Volevano instaurare una dinastia, essere i dominatori della lega, come i Lakers e i Celtics degli anni precedenti.
L'anno seguente, quello che sanciva il passaggio fra un decennio e l'altro, i Pistons vinsero 59 partite in Regular Season, cinque in più dei Bulls che avevano il secondo miglior record ad est.
A Chicago era approdato come coach una vecchia conoscenza del basket NBA, quel Phil Jackson che a inizio anni '70 aveva vinto due titoli nei New York Knicks targati Willis Reed e Walt Frazier.
Jackson e il suo assistente Tex Winter portarono alcune novità negli schemi offensivi dei Bulls, la più rivelante di queste aveva un nome destinato a diventare storico dalle parti del pianeta NBA: The Triangle Offence, l'attacco triangolo. Secondo Jackson era il miglior modo per far fronte alle Jordan Rules di Daly.
Nei Playoffs Chicago eliminò in 4 partite i Bucks, in 5 Philadelphia e raggiunse per la seconda volta consecutiva la finale di Conference. Questa volta con un anno in più di esperienza sulle spalle, una diversa consapevolezza nei propri mezzi, un Jordan al solito devastante e un supporting cast (quelli che spregiativamente spesso venivano chiamati Jordaniers) che pareva finalmente all'altezza.
Detroit dal canto suo fece fuori in tre secche partite Indiana e in cinque New York. Era pronta alla battaglia contro i Bulls. Quella era la terza volta in tre anni che Pistons e Bulls incorciavano le armi nei PO. Fino ad allora l'avevano sempre spuntata i Pistons. Ma forse stavolta sarebbe andata diversamente.
Da un lato la classe e la gioventù di Chicago, dall'altro la cattiveria e l'esperienza di Detroit. Ne nacque una serie storica, combattuta e tirata. I Bulls spinsero i Pistons al loro limite, li fecero sputare sangue, non si sottrassero alla battaglia, eppure nel momento decisivo qualcosa venne loro a mancare. Per superare Detroit, i Bulls avevano bisogno del miglior Jordan, ma Jordan aveva bisogno dei propri compagni di squadra e soprattutto del suo secondo violino, quello Scottie Pippen al terzo anno nella lega. Purtroppo per i Bulls, però, quella serie verrà ricordata proprio per la debacle personale del numero 33 da Arkansas. E per molti degli anni a venire peserà come un macigno sulla carriera di Scottie, sarà una serie che condizionerà pesantemente i giudizi sul reale valore del Pippen giocatore.
Classico esempio di Jordan Rules
In gara 1 Jordan realizzò 34 punti, Pippen 16. Gli altri Bulls furono letteralmente annichiliti. Chicago tirò complessivamente con il 37% dal campo. Detroit vinse per 86 a 77.
In gara 2 salì ulteriormente la pressione difensiva dei Pistons su Jordan. Il numero 23 fu letteralmente aggredito sul piano fisico durante tutta la partita. Ogni suo possesso si trasformò in un assalto all'arma bianca. Michael tirò col 31% dal campo e realizzò 20 punti. Dall'altro lato Dumars ne mise 31 e in totale cinque giocatori dei Pistons andarono in doppia cifra di punti. Detroit si portò sul 2-0 dopo le due gare casalinghe. I Bulls erano già spalle al muro.
La serie si trasferì a Chicago e lì ci fu un vero e proprio rigurgito d'orgoglio da parte dei Bulls.
In gara 3 a nulla valsero i 36 punti di Thomas, perché dall'altro lato Jordan ne mise 47 e Pippen 29.
MJ replicò in gara 4 mettendo a referto 42 punti e trascinando di peso i suoi alla vittoria. La serie tornava ad essere in parità. Le Jordan Rules per la prima volta mostravano delle crepe.
Per gara 5 si ritornò a Detroit, al Palace, la roccaforte dei Pistons. Pippen sembrò nuovamente accusare la feroce intimidazione della difesa di Detroit. In 45 minuti di gioco tirò con un misero 5 su 20 dal campo, perse 4 palloni e i Pistons, trascinati da Dumars, Aguirre, Laimbeer e innescati dalla splendida regia di Thomas, si imposero per 97 a 83.
Proprio Bill Laimbeer era il giocatore che più di tutti Pippen temeva, ma in generale era il giocatore più odiato da tutti i Bulls. Il classico grosso e cattivo che, pure in un contesto particolare come quello dei Pistons, riusciva a distinguersi per la sua intimidazione e per la sua difesa fisica che spesso andava ben oltre i limiti del consentito. In un recentissimo sondaggio condotto da una rivista americana, Bill è stato votato come il giocatore più sporco nella storia della NBA, davanti proprio al suo compagno di squadra Rodman e a Bruce Bowen. Fra i primi cinque di quella speciale classifica, compare un altro componenente di quei Bad Boys, Rick Mahorn, proprio a dimostrazione di come a giocare contro quei Pistons si rischiasse molto di più che una semplice sconfitta.
Bill Laimbeer se la prende con Scottie Pippen
Tuttavia in gara 6, di fronte al proprio pubblico, i Bulls giocarono la migliore partita della serie e si imposero con 18 punti di scarto: 109 a 91 diceva il risultato finale.
Jordan, nonostante a fasi alterne avesse continuato a soffrire la difesa dei Pistons, stava comunque giocando una grandissima serie e i Pistons spesso avevano dato l'impressione di non riuscire più nell'impresa di contenerlo. Persino le Jordan rules si stavano mostrando talvolta insufficienti di fronte al nuovo modo di giocare dei Bulls e dello stesso numero 23.
Dopo gara 6, per la prima volta nella serie, i pronostici sembrarono cambiare direzione. I Pistons d'un tratto apparvero stanchi, nervosi, quasi sull'orlo del collasso. I giovani Bulls sembrarono per un attimo avere il vento in poppa e quella gara 7 esterna non faceva più così paura come in passato.
Pippen afflitto da emicrania
Il giorno prima della fatidica gara, Pippen fu però afflitto da un forte mal di testa che lo obbligò a letto per tutta la giornata. Il problema sembrò superato dopo una notte di riposo, ma appena Pippen mise piede sul parquet per la palla a due di quella che si prospettava una vera e autentica battaglia, l'emicrania riesplose in tutta la sua violenza. Il suo apporto alla causa fu semplicemente nullo nonostante fosse rimasto in campo per ben 42 minuti.
Dall'altro lato i Pistons erano disposti a tutto pur di non cedere agli odiati avversari. E la partita si trasformò in un crudele e ingiusto uno contro tutti.
Michael Jordan mise 31 punti. Ma il resto della squadra non scese praticamente in campo.
Horace Grant tirò con 3 su 17 dal campo, Hodges 3 su 13, Cartwright 3 su 9, Pippen 1 su 10 con appena due punti messi a referto.
Grazie a Jordan, Chicago resse il primo quarto che si concluse sul 19 a 17 per i Pistons. Poi ci fu il crollo. Detroit diede lo strappo nel secondo quarto rifilando 17 punti di scarto a Chicago. La squadra di casa controllò la terza frazione non permettendo mai ai Bulls di avvicinarsi troppo. Michael Jordan lottò praticamente da solo contro tutto e tutti. Nell'ultimo periodo si arrese anche a lui e i Pistons dilagarono definitivamente.
La partita si chiuse sul 93 a 74 per Detroit che approdava alla terza finale consecutiva.
A fine partita, un Jordan stremato, livido di rabbia e frustrato, tuonò davanti ai microfoni:
"Alcuni miei compagni di squadra non hanno giocato come sono in grado di fare, questo è un dato di fatto. Ma dobbiamo lasciare questa sconfitta alle spalle e andare avanti".
Il riferimento a Scottie Pippen parve evidente a tutti. E' risaputo infatti che MJ non accettò mai quella prestazione del suo amico e compagno in una delle gare più importanti della loro vita. Così come è risaputo che in molti, forse Jordan compreso, malignarono sulle reali condizioni fisiche di Scottie, la cui emicrania a parer loro, era dovuta solo alla tensione per l'imminente partita e al timore quasi fisico che Pippen nutriva nei confronti dei Pistons. Tanto è vero che qualche tempo dopo, al termine di una nuova partita giocata male da Pippen, Jordan davanti ai giornalisti si rivolse al suo amico apostrofandolo con un ironico: “Mal di testa anche oggi, Scottie?”

Eppure Pippen negò sempre che le parole di Jordan al termine di quella gara 7 fossero dirette a lui, anzi si difese affermando:
"I miei compagni di squadra sanno che ho fatto tutto quello che era nelle mie possibilità per aiutarli a vincere. Ho giocato 42 minuti. Non sono stati minuti di qualità, ma ho dato davvero il massimo e questo è ciò che conta."
Frattanto i Pistons lasciarono i Bulls alle prese con le loro polemiche e i loro problemi e si apprestarono a difendere il titolo contro i Portland Trail-Blazers guidati da Clyde Drexler.
Detroit vinse la serie finale in 5 gare, realizzò l'agognato back to back e Isiah Thomas fu eletto MVP delle finali. Davanti ai microfoni, il piccolo grande uomo dei Pistons dichiarò:
"Potete dire tutto ciò che volete di me, ma non potrete mai dire che non sono un vincente."

Ma se Isiah e compagni credevano di essersi definitivamente liberati dei Bulls e di aver dimostrato una volta per tutte la loro superiorità, sarebbero andati incontro ad un'amara delusione. L'anno dopo Chicago sarebbe tornata presto a insidiare i sogni di gloria dei Pistons. 
Una nuova incandescente Finale di Conference era già in programma...



TO BE CONTINUED...


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