giovedì 28 maggio 2015

Once Upon a Time in America [Terza e Quarta Parte - 12/19 Maggio 2013]



Nell'estate del 1956, in un’America in pieno tumulto e sconvolta dalla questione razziale, sei anni dopo l’esordio di Lloyd e dei suoi tre compari e qualche mese dopo l'arresto di Rosa Parks, fece il suo ingresso in NBA con la maglia verde dei Boston Celtics, un ragazzo ventiduenne nato a Monroe, in Louisiana, ma cresciuto ad Oackland, California.

Costui che aveva dominato il college basket in quel di San Francisco a evava appena vinto la medaglia d'oro alle Olimpiadi di Melbourne, cambierà la storia della pallacanestro mondiale, ne stravolgerà i cardini, i concetti e la psicologia. In tredici anni di professionismo diventerà il giocatore più vincente nella storia dello sport americano. Dominerà come mai nessun altro prima e vincerà come mai nessun altro prima e come mai nessun altro dopo.
Il suo nome era William Felton Russell, per gli amici Bill. La prima grande superstar di colore. L’uomo che finalmente riuscì a sdoganare il nero. Eppure non fu facile neanche per lui. L’essere Bill Russell non lo salvò comunque dall’idiozia dilagante.
Russell aveva conosciuto il razzismo becero del profondo sud nei suoi primi anni di vita. Erano gli anni ’30 quando aveva visto suo padre Charles avere un violento alterco con un bianco nella piazza centrale di Monroe. Il vecchio Charlie capì che sarebbe stato meglio per tutti andarsene e trasferì la famiglia in California. Lì il ragazzo continuò ad abbeverarsi all’amaro calice della discriminazione razziale, tanti piccoli episodi che s’insinuarono nel suo animo, scavarono un solco profondo e lasciarono indelebili cicatrici sulla sua pelle scura: la fontana “per soli bianchi”, i bar e i ristoranti dove non poteva entrare, i luoghi pubblici a lui preclusi, i sedili sul fondo dell’autobus, le occhiate e le parole della gente, quel ritornello che rimbombava nella sua mente, la torturava: "sei un bravo negro", gli dicevano continuamente. Tutti episodi che ebbero una notevole influenza nello sviluppo del Bill Russell uomo e giocatore. Ne segneranno irrimediabilmente il carattere schivo, ma non solo, acuiranno la sua incredibile voglia di vincere, di imporsi, di dominare. 
Bill Russell
Arrivarono gli anni ’60 e Russell, leader indiscusso della NBA e dello sport statunitense, fu attivista convinto del Movimento Americano per i Diritti Civili. Si schierò in maniera forte e rumorosa e questo gli provocò non pochi attriti fra i giornalisti che bazzicavano il Boston Garden.
Il piccolo focolaio che era stato il rifiuto di Rosa Parks era frattanto diventato un incendio che stava divampando da parte a parte in tutti gli States.
Mentre nell’aprile del 1963 a Birghingam, in Alabama, duecentocinquanta volontari manifestavano per i diritti civili, occupando ristoranti e negozi, e la polizia procedeva ad operazioni di arresto e repressione, Bill Russell, al ritorno da una lunga trasferta sulla costa occidentale, trovava la sua casa messa a soqquadro da un raid vandalico a sfondo razzista, episodio che lo portò a definire la città di Boston “un mercatino delle pulci del razzismo”. Si ruppe qualcosa quel giorno fra lui e la città in cui aveva trovato gloria e onori. Si creò un profondo solco che verrà colmato soltanto parecchi anni dopo.
Il 12 aprile dello stesso anno Martin Luther King decise di marciare alla testa di un nutrito numero di pacifici contestatori, sicuro che la manifestazione si sarebbe conclusa con il suo arresto. Voleva dare un segnale forte all’intero paese. Il corteo partì dalla chiesa di Zion Hill a Birghingam e i manifestanti andarono incontro alla polizia, cantando.
Dopo 8 giorni King uscì di prigione e la battaglia pacifica riprese. Organizzò la “Crociata dei bambini”, un corteo cui parteciparono migliaia di ragazzi, tutti con meno di diciotto anni d’età. La polizia caricò. Salì agli onori della cronaca l’infame commissario di pubblica sicurezza dell’Alabama, Bull Connor, il grande razzista, lo strenue oppositore ai diritti dei neri. Vennero utilizzate pompe antincendio e cani contro i ragazzi, e sotto gli occhi di tutto il mondo, Birmingham offrì un terribile spettacolo di razzismo e violenza.
Sull'onda dell'indignazione, il presidente Kennedy presentò per la prima volta al Congresso un provvedimento che sancisse pari diritti per bianchi e neri d'America. Gli stati del sud si opposero. Fu allora che Martin Luther King organizzò la famosa “Marcia per il lavoro e la libertà”
Il 28 Agosto del 1963, duecentocinquantamila persone marciarono alla volta di Washington. Solo cinquantamila erano afroamericane. Gli altri erano bianchi che si erano appassionati alla causa. Washington non aveva mai assistito ad uno spettacolo simile, ad un’affluenza così massiccia di persone, né prima né dopo di allora.
Il corteo si concluse al Lincoln Memorial di Washington con la celebre stretta di mano fra John Kennedy e Martin Luther King e l’ancor più celebre discorso “I have a dream”.
Meno di tre mesi dopo, a Dallas, in Texas, John Fitzgerald Kennedy troverà la morte in un attentato le cui motivazioni sono ancora ufficialmente sconosciute.
Arrivò la metà degli anni ’60.
Il 21 febbraio a New York venne assassinato Malcom X dagli stessi membri della “Nation of Islam”, mentre Russell si rifiutò di scendere in campo per una partita di esibizione in Kentucky dove, poche ore prima, gli era stato proibito l’ingresso in un ristorante. 
Il 7 marzo, in Alabama, partì la prima grande marcia per i diritti civili da Selma a Montgomery. Era domenica, una domenica che sarebbe passata alla storia come la Bloody Sunday perché seicento attivisti in marcia furono attaccati dalla polizia con manganelli e gas lacrimogeni durante l'attraversamento del ponte Edmund Pettus Bridge.
Martin Luther King

La seconda marcia si tenne il successivo martedì, ma gli oltre duemila manifestanti tornarono indietro dopo aver attraversato lo stesso ponte come semplice atto dimostrativo.
Mercoledì 17 marzo, un giudice federale dell'Alabama si espresse in favore dei partecipanti, riconoscendo che il loro diritto di marciare, garantito dal Primo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti. Così quattro giorno dopo circa ottomila manifestanti percorsero circa 10 miglia lungo la U.S. Route 80. Nei giorni seguenti altri manifestanti si aggiunsero per strada, e scortati da duemila soldati dell'esercito statunitense e dala ltrettanti membri della Guardia Nazionale dell'Alabama sotto comando federale, da agenti dell'FBI e dello U.S. Marshals Service arrivarono a Montgomery il 24 marzo e all'Alabama State Capitol il 25. Nel frattempo i manifestanti erano diventati circa venticinquemila. Fu quella la più grande vittoria degli afroamericani, macchiata poche ore dopo dalla morte dell'attivista bianca del Michigan Viola Liuzzo, uccisa da tre membri del Ku Klux Klan mentre faceva rientro a casa.
Tommie Smith e John Carlos
L'anno dopo, Stokely Carmichael fondò il “Black Power” e Russell ne fu subito simpatizzante. A quel tempo risale il nomignolo Felton X. Il “Potere Nero” sarebbe poi salito agli onori della cronaca qualche anno dopo, quando alle Olimpiadi di Città del Messico nel 1968, il vincitore dei 200 metri piani, Tommie Smith ed il suo connazionale John Carlos, durante la premiazione, alzarono il pugno chiuso guantato di nero, in segno di protesta contro la segregazione perpetrata dai bianchi e in appoggio alle lotte del “Black Power”.
Frattanto la NBA stava diventando sempre più terra di conquista per gli afro-americani. Ray Darlington Felix nel 1953 era stato il primo nero scelto con la chiamata numero uno ad un draft. Quindi era seguita una marea nera inarrestabile. Erano loro i nuovi dominatori della lega. Si spartivano titoli e trofei, avevano letteralmente stravolto il gioco, ne stavano ridisegnando i confini, lo plasmavano a propria immagine e somiglianza.
Nessuno poteva arginare quest’onda tumultuosa. Troppo a lungo gli afro-americani erano rimasti esclusi da qualsiasi forma di gioco organizzato, dai vincoli tattici predominanti all’epoca, dagli approcci tradizionali alle partite. Avevano sviluppato un’altra pallacanestro, diversa, giocata in campo aperto, senza barriere, ispirata a quella dei Globetrotters e dei Rens. Stavano portando sui parquet di tutta l’America la loro visione del basket, il loro atletismo, la loro allegria, una velocità e una creatività sconosciute fino ad allora, ma soprattutto la loro cultura. Stavano lentamente contagiando il pubblico.
Dal 1959, l’anno in cui Bob Pettit vinse il suo secondo MVP di stagione, sarebbero passati tredici anni prima che un altro giocatore bianco, Dave Cowens, centro dei Celtics ed erede di Russell, avrebbe vinto il premio. E da allora, solo altri quattro MVP nella storia sarebbero stati bianchi: Bill Walton nel 1978, Larry Bird a metà anni ’80 e recentemente Steve Nash e Dirk Nowitzki.
Eppure l’evento che più di ogni altro fu determinante per sovvertire definitivamente gli equilibri sportivi fra bianchi e neri, non appartiene al mondo del basket professionistico, bensì a quello collegiale.
Era il 19 marzo del 1966. Quel giorno il college basket si rese inconsapevole protagonista di una tappa fondamentale nella storia di questo sport, dal rilevante impatto sociale.
In piena March Madness, l’intero paese poté assistere per la prima volta ad una partita fra una squadra interamente composta da afro-americani ed una completamente di bianchi.
Gli “All Blacks” erano i Miners di Texas Western, quella che oggi è conosciuta come la “University of Texas at El Paso” (UTEP). 
Texas Western, campione NCAA 1966
Texas Western schierava ben sette giocatori di colore a roster, cinque dei quali partivano costantemente in quintetto base. Un’anomalia soprattutto negli stati del profondo sud. Prima di allora nessun coach aveva mai messo in campo un quintetto composto interamente da afro-americani.
L’allenatore della squadra era Don Haskins, un bianco dell’Oklahoma, lontano dalle proteste che stavano infiammando gli States.
Haskins non si batteva per un futuro migliore in cui bianchi e neri potessero convivere serenamente condividendo stessi diritti e stessi doveri, semplicemente mandava in campo gli uomini migliori che possedeva in squadra, indipendentemente dal colore della pelle. Per vincere, aveva capito prima degli altri che non poteva prescindere dagli afro-americani.
Un’idea in netto contrasto con le teorie predominanti all’epoca, secondo le quali occorreva almeno un giocatore bianco in quintetto. Senza l’accortezza tattica, la disciplina e la somma intelligenza del bianco, la partita sarebbe sicuramente degenerata in caos perché con i soli neri avrebbero finito per prevalere i loro bassi istinti animaleschi.
Perfettamente in linea con queste tesi, qualche giornalista dell’epoca, con l’unico scopo di avvallare le teoria razziste in voga, si spinse a definire i Miners “non interessati alla difesa”. Per poi aggiungere amabilmente:  “Cercano solo di spingere la palla il più velocemente possibile verso il canestro. Con un pallone da basket essi sono in grado di fare molte più cose che una scimmia su una liana di 15 metri in piena giungla”.
A dispetto della penna che si avventurava in tali dotte e garbate analisi, i Miners in realtà giocavano una pallacanestro molto organizzata e disciplinata. Difendevano duramente ed avevano un estro offensivo di primissimo livello.
La squadra vinse 23 partite a fronte di una sola sconfitta durante la Season, subì una media di appena 62 punti a partita e centrò l'ingresso al tabellone della NCAA. In rapida successione i Miners si sbarazzarono di Oklahoma, Cincinnati e Kansas. Il 18 marzo nella prima partita delle Final Four sconfissero Utah per 85 a 78.
Arrivò la tanto agognata finale. Gli avversari erano di rango, nientemeno che l’Università di Kentucky.
I Wildcats annoveravano fra le proprie fila giocatori destinati ad avere un sicuro futuro al piano superiore e su tutti spiccava un tale il cui nome sarebbe divenuto piuttosto famoso dalle parti della NBA: Pat Riley.
Ma soprattutto erano allenati da un’autentica leggenda vivente del basket made in USA: Adolph Rupp. Uno che aveva masticato basket sin da quando era nato, che si era abbeverato alla fonte di Phog Allen e di James Naismith, ai tempi del college a Kansas.
Adolph Rupp
Rupp era stato campione NCAA già quattro volte, l’ultima delle quali otto anni prima, nel 1958, quando la sua Kentucky aveva sconfitto per 84 a 72 l’università di Seattle. I Redhawks erano guidati da una fantastica guardia-ala tutta nera che aveva chiuso la stagione NCAA con  31 punti e 19 rimbalzi di media. Il suo nome era Elgin Baylor, il primo player di colore ad essere nominato miglior giocatore della capitale, ai tempi dell’High School.
Rupp che aveva superato con successo anche lo scoglio Baylor, non aveva mai perso una finale prima di allora. Era convinto che non l’avrebbe persa neanche quella volta.
“Mai” dichiarò con solida certezza “un team di soli neri potrebbe battere una mia squadra”.
Una frase che avrebbe contribuito non poco a dare un significato particolare all’evento agonistico. L’intera figura di Rupp e la sua atavica ostilità verso i giocatori di colore contribuirono a creare quel clima di spasmodica attesa per una finale storica.
La gara si disputò al Cole Field House nel Maryland. Terminò 72-65 per i Miners.
I neri avevano vinto. Giocando meglio degli avversari, saltando, schiacciando e dando spettacolo. Ma soprattutto difendendo duro nei minuti di finale di partita.
Quella fu l’unica sconfitta in una finale NCAA per Adolph Rupp, la più crudele. Una sconfitta che segnò per sempre la sua vita. Si narra che in punto di morte, nel 1977, dopo una lunga malattia, Rupp ancora si lamentava per quella partita che non era solo una partita, il cui terribile ricordo l’aveva accompagnato per sempre.
Quattro anni dopo quella finale, Rupp ingaggiò il primo giocatore di colore nella storia di Kentucky, era Tom Payne un centro di due metri e sedici, battezzato dalla stampa come il nuovo Alcindor.
Tom Payne, stella di Kentucky e stupratore seriale
Payne giocò un paio di anni al college trentelleggiando spesso agli ordini di coach Rupp. Il punto più alto della sua carriera lo toccò segnando 39 punti contro Louisiana State. Aveva un roseo futuro nel mondo del basket, Payne. Peccato fosse anche uno stupratore seriale.
Fu chiamato nella NBA dagli Hawks, giocò 29 partite, poi il suo nome venne collegato a diversi casi di stupro che stavano avvenendo con insolita frequenza dalle parti di Atlanta e che nel recente passato erano stati registrati nel Kentucky. Payne finì in carcere, vi trascorse dieci anni, fu rilasciato nel 1983, provò a dedicarsi nuovamente al basket nella CBA, ma nel 1986 fu beccato mentre tentava di violentare una donna a Los Angeles. Ritornò in carcere, tuttora sta scontando la sua pena nel penitenziario di stato a LaGrange, in Kentucky.
Dopo Payne, i Wildcats erano tornati ad essere una squadra interamente bianca. Rupp successivamente provò ad ingaggiare anche il grandissimo Wes Unseld ma solo perché, si dice, pensava fosse bianco. In seguito molti altri afro-americani rifiutarono di giocare per lui.
Nel marzo del 1972, Rupp giocò l’ultima delle 1066 partite da glorioso coach di Kentucky. I Wildcats persero contro Florida State. Anche quel giorno Kentucky era composta da soli giocatori bianchi, mentre Florida schierava un quintetto tutto nero.
Tornando ai nostri anni sessanta, se la vittoria di Texas Western, socialmente, aveva un suo peso, sportivamente diventava assolutamente rilevante. Tutto ciò in cui i cosiddetti esperti avevano creduto fino a quel giorno, era stato sovvertito in poco meno di un’ora di gioco.
E dal piano di sopra, il circuito dei professionisti, arrivavano esempi che di certo non favorivano il perdurare della segregazione.
Qualche settimana dopo la storica finale NCAA, il pluridecorato coach dei Celtics, Red Auerbach, lasciò assieme al suo sigaro la panchina di Boston per sedersi dietro una scrivania e rivestire solo il ruolo di GM del club. Il suo posto fu preso proprio da Bill Russell nelle vesti di allenatore-giocatore. Era il primo afro-americano a diventare coach di una squadra NBA. Un altro tabù era stato infranto.
Boston, con l’asse portante della squadra nero ed un coach nero, continuò a dominare la lega, vincendo altri due titoli, nel 1968 e nel 1969.
I principali rivali di Russell & Co. si chiamavano oltretutto Elgin Baylor da Washington, Oscar Robertson dal Tennessee, Nate Thurmond da Akron, Ohio. A cui, man mano si erano aggiunti i vari Willis Reed e Walt Frazier in maglia Knicks, Wes Unseld da Louisville, Elvin Hayes dall’università d Houston. Ma su tutti si stagliava l’imponente figura di Wilt Chamberlain, il colosso nero di Philadelphia.
Bill Russell contro Wilt Chamberlain
Wilt Chamberlain era il più grande amico e il più grande rivale di Bill Russell. I due erano diversi come il giorno e la notte, agli antipodi nello stile di vita e di gioco. Musone e introverso uno, edonista e viveur l’altro. Wilt scrisse pagine indelebili nella storia della pallacanestro. Due e metri e sedici centimetri di pura potenza, gambe interminabili, braccia che arrivavano dappertutto, il più grande realizzatore di sempre. Fu definito il più perfetto strumento che Dio avesse mai fatto per giocare a basket. Per limitarne lo strapotere cambiarono le regole della pallacanestro. Ma a lui, nato e cresciuto in una città che il razzismo lo viveva molto di striscio, interessavano relativamente le cause sociali. In un’epoca in cui i giganti neri dello sport come Alì, come Tommie Smith, come lo stesso Russell, lottavano  per i diritti civili, Chamberlain fu diverso. 
“Non sono nato per fare Jackie Robinson, non ho quella passione” disse una volta. Una vita sempre in controtendenza. Votava repubblicano e scandalizzava il mondo affermando che le donne bianche a letto erano migliori delle nere.
Alla sua morte, nel 1999, Bill Russell, il suo più grande rivale, il suo più grande amico, disse: “Io e Wilt saremo amici per l'eternità”.
Chi invece il razzismo l’aveva conosciuto sin dall’infanzia era Oscar Robertson. Nato da una famiglia poverissima del profondo sud, Oscar aveva sempre creduto nella palla a spicchi come unico mezzo per affrancare la sua vita dalla miseria e dalla segregazione.
L'immenso Oscar Robertson
Dominò il basket a qualsiasi livello, dall’high school alla NBA, eppure l’appellativo di “negro” lo accompagnò ovunque. Nonostante i successi che collezionava sui campi di mezza America, la sua carriera universitaria fu costellata ed esasperata da numerosi episodi di razzismo che segnarono profondamente la sua vita. Robertson, la grande O, non dimenticherà mai le trasferte in maglia Bearcats, quando trovava rifugio nei fatiscenti dormitori universitari, mentre i meno talentuosi compagni bianchi alloggiavano negli alberghi. Lasciò il college come miglior realizzatore di sempre della NCAA, primato che gli verrà sottratto solo diversi anni dopo da un altro che con una palla da basket ci sapeva parecchio fare, Pete Maravich.
Diversi anni dopo, da superstar della NBA, Robertson divenne presidente dell’associazione giocatori. Si impose come leader e portavoce dei giocatori, bianchi o neri, che fossero. Intentò e vinse cause contro la lega, il suo apporto fu fondamentale per far valere i diritti dei giocatori, per dar loro potere contrattuale, pari privilegi, indipendentemente dal colore della pelle.
I gloriosi anni ’60 volgevano però al termine.
Martin Luther King veniva assassinato a Memphis. Un giovanissimo ragazzo di origine newyorkese che giocava come centro ad UCLA sotto Jim Wooden, leggendo i testi del più strenue difensore dei diritti dei neri, Malcom X, decideva di convertirsi all’islamismo. Il suo nome era Lew Alcindor, tre anni dopo lo cambierà in Kareem Abdul Jabbar.
L’arrivo di Alcindor nella NBA coincise con il ritiro dell’immenso Russell. Chamberlain aveva già 33 anni e la generazione di fenomeni neri che aveva stravolto il basket e contribuito a sgretolare le barriere razziali, almeno nello sport, stava ormai giungendo al suo epilogo.
Ma la rotta era stata tracciata. La percentuale di afro-americani nella lega aumenterà a dismisura con il passare degli anni.
Jabbar ai tempi di UCLA
Jabbar appese le scarpe al chiodo vent’anni dopo il suo esordio. Il suo Sky Hook ha sfidato tre generazioni di centri. Ha visto esordire nel 1978 il primo giocatore di origini latine nella lega, il portoricano Butch Lee. Durante gli anni ’80 è stato spettatore di ondate di razzismo inverso, si è confrontato con quello che forse è il più grande nero nella storia di questo sport e con quello che forse è il più grande bianco.
Ha assistito alla sparata di un giovanissimo rookie di Detroit che definì Larry Bird: “Un giocatore come tanti se solo non fosse bianco”.
Ha visto la lega inalberarsi come non mai di fronte a questo episodio diversamente razzista e obbligare il leader di Detroit, Isiah Thomas, a volare fino a Los Angeles, dove Bird stava disputando le finali, per porgere le proprie scuse.
Si è confrontato a suon di rimbalzi con il giovane rookie che aveva dato origine alla querelle, un tale di nome Dennis Rodman.
Al momento del ritiro, nel 1989, dopo una carriera ineguagliabile, il suo posto nei Los Angeles Lakers è stato da un bianco, slavo, barbuto, fumatore accanito di Marlboro, di nome Vlade Divac.
Tre anni dopo Los Angeles diventò protagonista della più grande sommossa a sfondo razziale degli Stati Uniti, in seguito alla completa assoluzione di quattro poliziotti che avevano partecipato al violento pestaggio di un tassista afro-americano di nome Rodney King. La Rivolta di Los Angeles durò quasi una settimana. Al termine si contarono 54 morti e oltre 3500 incendi appiccati per la città.
Il play nero dei Lakers, Magic Johnson, non esitò a schierarsi e la definì in un’intervista “collera giustificata”.
Rodney King verrà trovato misteriosamente morto parecchi anni dopo, all’età di 47 anni, annegato, sul fondo della piscina della sua abitazione.
Lo stesso anno di Divac, arrivò nella lega anche Dražen Petrovic, bianco, croato, che segnerà in maglia Nets oltre venti punti a partita e tirerà col 51% dal campo, sul quale si riverserà l’ironia nera del difensore dei Rockets, Vernon Maxwell: “Deve ancora nascere un europeo bianco che mi faccia le scarpe”.
Dražen gliene metterà 44 sul muso.
Nel 2001, entrò in NBA il primo cinese della storia, Wang Zhizhi. L’anno dopo toccò a Yao Ming, prima scelta assoluta.
Oggi, sessantasei anni dopo Misaka, sessantatré dopo Earl Lloyd, cinquantasette dopo l’esordio di Russell, il 78% dei giocatori in NBA è nero, il 4% ha origini latine, il 17% è rappresentato da bianchi, di cui il 10% americani. Il restante 1% è formato da giocatori di origini asiatiche.
Fra questi ultimi, colui che fino a poco tempo fa era quasi uno sconosciuto. Californiano di Palo Alto, di genitori taiwanesi. La pelle gialla, gli occhi a mandorla, una laurea ad Harvard. Qualche presenza a Golden state, poi la D-League con i Reno Bighorns. Quindi l’approdo ai Knicks, la fama costruita a suon di ventelli, rimbalzi, assist, una striscia di vittorie, qualche canestro decisivo. 
Il suo nome è Jeremy Lin e scatena l’ironia e l’ilarità di giocatori e giornalisti. Il fondo lo tocca un sicuro lord inglese, giornalista di Foxsport che parla di "cinque centimetri di dolore che toccheranno in sorte ad una fortunata newyorkese"
Chapeau.
Come dire... 
C'era una volta in America.
O forse c'è ancora.



Terza e quarta parte di un articolo pubblicato da Luigi Sorrenti per il defunto blog Hoops Democracy il 12 e il 19 Maggio 2013.

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