sabato 30 maggio 2015

Another Brick in the... Soul (3 Settembre 2004)

Nick Anderson dalla lunetta

Parliamo di basket.
Di nobile o volgare basket NBA. Infarcito di leggende e di miserie umane, ricco di incrollabili miti e modesti figuranti, ma pur sempre solo e semplice basket. Uno sport. Insomma, quella roba lì, buona per passare il tempo o per farci sopra qualche soldo.
Ne siamo proprio sicuri? Quella di cui ci apprestiamo a raccontare può essere definita una semplice partita di palla al cesto, quando fra le sue innumerevoli pieghe, prende vividamente corpo il crollo psicologico di un uomo che spende gli ultimi bagliori di un’ottima carriera, ancora lontana dal termine, dalla linea della carità?
De Coubertin aveva detto “L’importante è partecipare, non vincere”. Nobile frase, certo! Ma andate a dirlo ad un Micheal Jordan! O provate a sussurrare queste encomiabili parole alle orecchie di Elgin Baylor, Charles Barkley, Pat Ewing, John Stockton e Karl Malone!

O – perché no? – provate a bisbigliarle alle orecchie di Nick Anderson! Orecchie in cui magari risuona ancora il boato della O-rena negli ultimissimi secondi di quella assurda finale. Ed il boato che si trasforma tragicamente in silenzio. Un silenzio assoluto. Irreale.
Mancano 7 secondi e 9 decimi al termine di gara 1 di finale tra Orlando Magic e Houston Rockets. E' il 7 giugno del 1995. Nelison Anderson, detto Nick, davanti al suo pubblico, va in lunetta per due tiri liberi decisivi. Il risultato è 110 a 107 per i suoi Magic. È sufficiente che ne metta uno solo perché la sua squadra divenga virtualmente irraggiungibile.
Invece... invece sbaglia il primo. Sbaglia anche il secondo.
A questo punto potrebbe crollarti il mondo addosso, ma Nick Anderson è sempre lì. È più veloce di Shaquille O’Neal e Horace Grant. È più veloce di Hakeem Olajuwon, Clyde Drexler e Robert Horry. Vola a canestro. Cattura il rimbalzo. Subisce fallo e… e torna in lunetta. Due nuovi tiri liberi per lui. Possono ancora voler dire vittoria. Devono voler dire vittoria.
Invece... invece sbaglia il primo. Sbaglia il secondo.
A questo punto il mondo gli crolla addosso per davvero. No doubt. È zero su quattro dalla linea della carità nei secondi finali di una gara di finale.
L’importante è partecipare, eh? Andateglielo a spiegare!
Dall’altra parte del campo, a fil di sirena, Kenny Smith, il play veterano di Houston, mette la tripla del pareggio e manda la partita all’overtime.
Da quel momento Nick Anderson diventerà Nick The Brick. Nick il Mattone. Come quelli che probabilmente sono costati ai suoi Magic un anello. Quelli che hanno cambiato completamente l’inerzia della partita. L’inerzia dell’intera serie. Forse anche il futuro della NBA. Quei tiri liberi hanno rappresentato il crollo psicologico di un giocatore che in quegli stessi playoffs era stato sempre decisivo.
Aveva duellato alla pari con Jordan al secondo turno. Aveva retto il confronto con uno stratosferico Reggie Miller in finale di conference. Ma poi era miseramente crollato in quella finale davanti a Clyde Drexler. Non per merito del pur grandissimo avversario, ma per la sicurezza venuta meno dopo i fatali errori.
Quel momento è stato un bivio decisivo per la carriera del giocatore. C’era stato un prima, e ci sarà un poi. Un prima, che lo aveva visto tirare dalla linea della carità con una media del 70%. Un poi, che lo vedrà nel giro di un paio di anni precipitare alle soglie del 40%.
Nel mezzo quattro liberi sbagliati consecutivamente.
Certo, è solo basket. E l’importante è partecipare. Almeno così diceva De Coubertin.
Gara 1 di finale NBA del 1995 fra Orlando Magic e Houston Rockets è stata una gara molto particolare, decisamente affascinante. Mattoni compresi.
A dirla tutta, gli interi playoffs che hanno poi portato a quella finale, sono stati molto particolari e decisamente affascinanti.
Houston era chiamata a riconfermarsi dopo l’exploit dell’anno prima e il titolo vinto in 7 gare contro i Knicks (The Dream and the Nightmare). Nessuno tuttavia credeva fosse possibile. Il primo anello di Olajuwon e soci era sembrato frutto di circostanze favorevoli. Il ritiro di Jordan, le debacle di Phoenix e Seattle, l’immaturità di squadre molto più talentuose come la stessa Orlando.
Nessuno pensava che avrebbero potuto ripetersi. Nessuno pensava che ad un anno di distanza si sarebbe parlato di piccola dinastia ed il nome di Hakeem Olajuwon sarebbe stato accostato a quello dei più grandi centri di sempre.
A complicare le cose per Houston arrivò lo scambio di metà stagione che la franchigia del Texas mise a segno, spedendo a Portland Otis Thorpe (la spalla ideale di Hakeem), in cambio di Clyde “The Glyde” Drexler, la fenomenale guardia dei Trail Blazers (due finali NBA per lui, due sconfitte, contro i Bad Boys di Detroit e conto i Bulls di Jordan). L’acquisto di Drexler fu additato da tutta la stampa specialistica made in Usa come un colossale errore da parte di Houston, per alcuni motivi giudicati fondamentali:
– I recenti infortuni di Drexler, giocatore comunque giudicato in parabola discendente.
– Il problema Vernon Maxwell, fondamentale per l’anello dell’anno prima, ma dal carattere difficile ed eccessivamente polemico (successivamente messo appunto fuori squadra).
– Troppe guardie in una squadra che già prevedeva Kenny Smith, Sam Cassel, Mario Elie e lo stesso Maxwell.
– L’assenza dei fondamentali rimbalzi di Thorpe.
Ma soprattutto lo scambio fu visto come distruttivo per i sottili equilibri tattici e di spogliatoio della squadra. Veniva in pratica minata la famosa o famigerata chimica di squadra. I delicati equilibri nel minutaggio e nella suddivisione dei tiri individuali.
Clyde Drexler, il veleggiatore
I risultati della Regular Season appena conclusa sembravano dar ragione alla corrente degli scettici. Houston chiuse con un record di 47 vittorie e 35 sconfitte. Decima posizione nella NBA. Sesta nel ranking della Western Conference alle spalle di Spurs (62-20), Jazz (60-22), Suns (59-23), gli allora SuperSonics (57-25) e Lakers (48-34).
I Rockets si presentarono ai playoffs con una squadra in piena crisi di identità, priva di un qualsiasi tipo di chimica, un Olajuwon alle prese con problemi di anemia, e soprattutto consci che per difendere il titolo avrebbero dovuto rovesciare il fattore campo in ogni singola serie. Impresa mai riuscita prima di allora nella storia della lega.
Nei due mesi successivi, si sarebbero dovuti ricredere tutti. E Houston avrebbe messo in scena uno show senza precedenti.
Due vittorie esterne al Delta Center di Salt Lake City permisero ai Rockets di superare al primo turno i Jazz per 3-2.
La semifinale di conference fu un’autentica battaglia contro Charles Barkley e i suoi Suns. Dopo due gare a Phoenix, il risultato era due partite a zero per i Suns. Ma ciò che aveva dato più da pensare erano stati i 22 punti di scarto in gara 1 e i 24 di gara 2 che Houston aveva subito. Si tornò in Texas per le due gare successive e Phoenix si portò addirittura sul 3-1.
Il resto è storia.
Ai Suns bastava una misera vittoria nelle successive 3 partite di cui due casalinghe. Vittoria mai arrivata. 
In gara 7, a Phoenix, i Rockets si imposero per 115-114 in una gara elettrizzante e volarono in finale di Conference da giocarsi contro contro gli Spurs di David Robinson, fresco MVP di stagione regolare.
Hakeem Olajuwon contro David Robinson, probabilmente i due migliori centri all'epoca in circolazione, o almeno così si diceva in giro. Hakeem Olajuwon, il Sogno Nigeriano, abusò letteralmente per tutta la serie dell’Ammriaglio Robinson.
Tre vittorie esterne. 4-2. Finale. Un’immagine su tutte. Gara cinque. Hakeem riceve palla sulle tacche, fa due finte, gira sul piede perno verso la linea di fondo, appoggia al tabellone mentre il suo avversario vola per aria nell’inutile tentativo di stoppata. Un canestro che passerà alla storia e che verrà riprosto in ogni modo e maniera in svariati video promozionali nei mesi e negli anni successivi.
Dall’altra parte del Grande Fiume a contendere l’anello ai Rockets arrivò la squadra più giovane della lega. La squadra del futuro.
I temutissimi e talentuosissimi Orlando Magic, guidati dal 22enne Penny Hardaway (scelta numero 3 al draft del ’93) e dal 23enne Shaquille O’Neal (prima scelta assoluta al draft del ’92).
Dei Magic si diceva ogni bene. O’Neal era il nuovo Chamberlain. Miglior realizzatore della stagione appena conclusa con 29,3 punti a partita. L’anno prima era stato beffato da Robinson proprio all’ultima gara, quando il pivot degli Spurs ne aveva messi 72. Shaq era anche il terzo miglior rimbalzista della lega con una media di 11,9 a partita.
Il secondo anno Penny Hardaway, da parte sua, si crogiolava di appellativi davvero impegnativi. C'era chi lo definiva un nuovo Magic con più difesa. Addirittura lo stesso Jordan lo aveva designato come suo erede naturale.
In più la squadra poteva contare sull’apporto dell’ex Bull, Horace Grant (rimbalzista fondamentale per la prima tripletta dei Tori), di Dennis Scott e appunto di Nick Anderson. Una squadra costruita per vincere. Per dominare negli anni a seguire.
Dopo il 3 a 1 sui Celtics al primo turno dei PO, per Orlando si era però subito presentato l’ostacolo Bulls del rientrante MJ.
Jordan contro Hardaway
Micheal Jordan, tornato per portare nuovamente la sua squadra sul tetto del mondo, con un nuovo numero sulle spalle, il 45, in gara 2 mise 38 punti e portò Chicago a violare la O-rena di Orlando.
I Magic ristabilirono il fattore campo in gara 3. Dopo quattro gare le due squadre erano sul 2 a 2. Ma la serie era già chiusa.
Due anni lontani dai campi di gioco non potevano essere passati invano, neanche se ti chiamavi Michael Jordan ed eri uno dei più forti giocatori di tutti i tempi.
Le gambe, il fiato vennero a mancare proprio nei momenti decisivi. Penny Hardaway salì in cattedra. Nick Anderson giocò la serie difensiva della vita su MJ. Nei minuti finali delle partite decisive, Jordan che nel frattempo aveva rispolverato il numero 23, dopo una battuta di troppo dello stesso Anderson (“Il numero 23 era un’altra cosa. Il 45 è solo un ottimo giocatore!”), sbagliò qualche giocata di troppo. Inusuale per uno come lui. Perse un paio di palloni fondamentali e Orlando chiuse la serie in sei gare e volò ad affrontare Indiana in finale di Conference.
La sfida contro i Pacers di un grandissimo Reggie Miller fu dura e faticosa. Orlando la spuntò alla settima partita e si ritrovò in finale con il fattore campo a favore.
La prima gara della serie che valeva il titolo NBA era dunque alla Orlando Arena e i Magic avevano tutti i favori del pronostico dalla loro. 
Partirono forte. Chiusero il primo quarto sul 30 a 19, più unidici. Ad inizio secondo quarto si ritrovarono avanti anche di 20 punti. Penny Hardaway in quella gara fece ricorso a tutto il suo immenso bagaglio tecnico per scavare un solco fra i suoi ed i Rockets. Mise 26 punti, tanti quanti Shaquille O'Neal. Sembrava essere l’anno della consacrazione per entrambi, i nuovi e futuri dominatori della lega per molti degli anni a venire. Sembrava appunto.
Ma come disse qualcuno qualche anno prima, mai sottovalutare il cuore di un campione. Quei Rockets non morivano mai. Ne avevano passate troppe in quei playoffs per arrendersi proprio in finale.
Olajuwon era in uno stato di grazia strepitoso. Era passato sul corpo di avversari fenomenali come Ewing, Malone, Barkley, David Robinson. Aveva una varietà di tiri impressionante e come passatore era al top in carriera. Probabilmente non era il più grande centro di sempre, ma sicuramente in quel momento era quello con la maggior varietà di soluzioni che si fossero mai viste per un lungo su un campo da basket.
Furono lui ed un Kenny Smith ispiratissimo dalla distanza, a suonare la carica per i Rockets.
A fine primo tempo riuscirono a portare la propria squadra sotto di 11 punti. Nel terzo quarto Kenny Smith infilò cinque triple di seguito per un parziale di 37 a 19, Rockets. E Houston al termine del periodo si ritrovò addirittura avanti di sette punti. 87-80!
Il vantaggio di Houston salì a 9 punti durante l’ultimo quarto, prima del recupero dei Magic.
Hakeem contro Shaq
Shaq (26 punti, 16 rimbalzi e 9 assist in gara 1) riportò Orlando in partita nel quarto periodo. 
Per lui, nell’arco dell’intera serie, risultò quasi impossibile vincere il duello contro Hakeem. The Dream aveva troppe armi in più nel suo arsenale, mentre il 32 dei Magic forse per la prima volta nella sua pur breve carriera stava palesando limiti di esperienza nell'affrontare un avversario tanto forte quanto deciso. Eppure Shaq che perse ogni singola battaglia, non crollò al suolo in quella serie. Rese onore all'avversario più forte senza mai alzare bandiera bianca.
Fu proprio grazie a lui che i Magic ebbero la concreta possibilità di vincere quella gara 1 di finale. E poi... poi chissà come sarebbe andata a finire la serie. 
A dieci secondi dalla fine, Penny Hardaway firmò il sorpasso per i suoi. 110  a 107, Orlando.
Poi... salì in cattedra Nick Anderson. Fino a quel momento aveva messo a segno 22 punti, preso 11 rimbalzi, tirato con il 50% dal campo. Non era ancora stato in lunetta in quella partita, ma ora aveva due liberi nelle mani per chiudere il match. E poi ancora altri due.
Sapete già come è finita. Una debacle.
La settima tripla in partita di Kenny Smith, sul rovesciamento di fronte, mandò il match al supplementare. Fu quello il momento in cui probabilmente la serie cambiò completamente direzione. Orlando perse la gara e il titolo. 
L'overtime fu un'altra strenue battaglia.
A 5,5 secondi dala sirena Dennis Scott mise il canestro del 118 pari. Sulla rimessa la palla arrivò a Drexler. O’Neal gli oscurò la visuale e Clyde forzò il tiro. Palla sul ferro. Ma non era ancora finita. Mancavano soli 3 decimi di secondo alla fine e Olajuwon volò per il tap-in vincente, il suo trentunesimo punto nella partita.
Il risultato finale diceva 120-118, Rockets. 1-0 nella serie. 
Houston ribaltò subito il fattore campo. Orlando andò in tilt. Il resto della serie, quasi non ebbe storia. Fu sweep.
Olajuwon e Drexler festeggiano il titolo
Olajuwon metterà altri 34 punti in gara due. 
31 in gara tre a cui aggiungerà 14 rimbalzi. 
Chiuderà la serie in gara quattro con 35 punti e 15 rimbalzi, oscurando definitivamente Shaquille O'Neal e i Magic.
Sarà univocamente eletto MVP della serie finale.
E noi potremmo chiederci all’infinito come sarebbe cambiato l’esito della finale senza quei quattro liberi sbagliati.    
Cosa sarebbe successo se Nick Anderson non fosse divenuto The Brick? 
Se Orlando avesse vinto quella partita e, spingendoci oltre con la fantasia, magari il titolo?
Potremmo chiederci all’infinito come sarebbe cambiata la storia della NBA senza quella delusione per Shaq. Se nel suo futuro ci sarebbe stata egualmente Los Anegeles, ci sarebbe stato Kobe Bryant.
La risposta nelle parole di Carrol Dawson, assistente allenatore di Houston, il quale dopo la vittoria della sua squadra ebbe modo profeticamente di dichiarare:
“Nell’86 noi eravamo i Magic di oggi e Boston diventava vecchia. Pensavamo di vincere chissà quanti titoli. Abbiamo invece dovuto aspettare quasi 8 anni e l’abbiamo fatto con una squadra completamente diversa. Questo dimostra quanto è aleatoria l’NBA. Mio consiglio ad Orlando: fate di tutto per vincere ora che potete, senza crogiolarvi del futuro roseo che vi attende. Non rimandate. Il futuro è un’incognita!”.
Ipse dixit, è proprio il caso di dire.



Articolo Pubblicato da The goat per PlayitUsa il 3 Settembre 2004


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